24/11/16

Vorrei essere una voce piccola e sincera


Insincerità. Questa parola mi intriga tantissimo.
Non è bugia. La bugia è un mezzo, l'insincerità è una tendenza, un'attitudine.
I suoi sinonimi sono doppiezza, falsità, finzione, ipocrisia.
Ma insincerità mi piace di più, forse perché insincerità è assenza di sincerità. Nient'altro: una caratteristica di base, una modalità di essere nel mondo.
Posso essere un uomo fondamentalmente sincero ed essere ipocrita con quella persona per una mia convenienza o per non ferirla. Oppure essere doppio, strategicamente o per paura. L'insincero è tutto intriso di bugia. Cresce nella bugia. Ecco perché si dice "insincerità di fondo". 

Ultimamente sono piuttosto intollerante con gli insinceri di fondo. Li mando a quel paese quando vogliono manipolarmi. Perché gli insinceri sono ovunque; la loro arma è la manipolazione e nessuno è esente dall'essere manipolabile. Specie chi ha fiducia negli altri. Chi ha fiducia negli altri ha bisogno di molte prove per dichiarare "insincera" una persona. All'inizio, in buona fede, ci casca.

Provo una certa ebbrezza nello smascherare gli insinceri, che prima ti riempiono di parole, confondendoti, ti aggrediscono, ti riesumano fatti risalenti a quando i Jalisse vinsero a Sanremo, come fosse ieri, e poi fuggono. 
Scoperti, non tornano. Quasi mai.

Osservo un fenomeno, specie nei social, dove pullulano gli insinceri di successo. Potrei chiamarlo "insincerità collusiva".
Le persone hanno la necessità di nutrire la maschera, non la loro, ma quella di chi propone un modo di essere vincente o socialmente appetibile oppure studiato a tavolino per costruirsi un brand. Dalle sfumature, si capisce che è insincero, purtroppo la maggior parte di noi è attirata dai colori forti, non dalle sfumature. 
Abbiamo la necessità di nutrire un modello, di rafforzare quel modello, di contribuire a eliminare il dissenso, perché è meglio illudersi che scoprirsi fregati, presi in giro. Alimentiamo il simbolo che rappresenta il nostro desiderio collettivo. Il dissenso ci impaurisce perché saremmo scoperti anche noi, complici di quel modello.
Il modello diventa la proiezione del nostro desiderio. Lui è come io vorrei essere, quindi lo amo, dico di amarlo e voglio che mi sentano. Lei è come io ho sempre desiderato di diventare, quindi le dico che la amo, lo urlo, voglio che si veda che io la amo. Il modello propone un'immagine, uno stile, un'idea: aggrega un target di persone portatrici dello stesso desiderio.
Io sono uguale a te, il tuo desiderio è il mio, dunque, uniamoci, per salvaguardare e dar forza al modello. 
Contribuendo con il mio gradimento, con la mia approvazione a uno dei diversi totem in circolazione, io rafforzo la mia illusione, quella di poter, grazie al totem, esaudire il mio desiderio, e cementifico, nel mio piccolo, l'illusione collettiva. Non capisco che attraverso la mia adesione incondizionata  al modello, rinuncio ad esaudire il mio desiderio, perché il modello si irrobustisce con l'immaginario e si nutre della frustrazione del desiderio dei singoli. Non capisco che mi allontano dal mio desiderio ma esaudisco quello del totem: avere potere e successo.
Godo nel ricevere attenzioni da quel totem, briciole della sua attenzione: vuol dire che viene riconosciuto il mio contributo. Sono legittimato nel mio desiderio.
Fino a quando qualcuno, con la sua voce piccola, tra gli applausi, in un attimo di silenzio, dice la verità e strappa la maschera. Dapprima arriva una nuova colata di cemento che ricopre quell'elemento di diversità e di contrasto. Poi, il dubbio s'insinua nelle menti più aperte e il totem comincia a traballare. 
E' che abbiamo così tanta paura di essere esclusi, di essere considerati pazzi, invidiosi, ciechi! E inghiottiamo la nostra vocina, rinunciando a diffondere la nostra piccola verità. Rinunciamo a essere venticello caldo sul ghiacciaio.

Da bambino, nel mio penny rosso, ascoltavo le Favole sonore, quelle con la canzoncina "A mille ce n'è", se non ricordo male. 
Ne avevo tante, anzi, ne avevamo tante io e mio fratello, e un giorno di guerra fredda, quando decidemmo di dividere la stanza in due parti con una fila di scarpe (io mi presi la zona tv concedendogli la visione di ciò che decidevo io di vedere), ci spartimmo pure i libretti coi dischi delle favole. 
Pretesi, tra le altre fiabe sonore, "I vestiti nuovi dell'imperatore", un racconto affascinante, ironico e divertente, catartico nel suo finale che rende giustizia alla voce piccola e ingenua, una fiaba meravigliosa nella sua denuncia, a filo di metafora, dell'inganno del potere e del silenzio connivente dei deboli, complici, spesso inconsapevolmente, di un potere manipolatorio.

Oggi, di fronte a un osanna di un esercito di deboli conniventi costruttori d'illusione, rivolto a una persona buona come una marmellata piena di anidride solforosa, ho avuto paura di essere escluso e ho ingoiato la mia piccola voce. Ho ripensato ai vestiti dell'imperatore e, pur incazzato, ho sorriso, perché m'è venuto in mente che in quella divisione concessi a mio fratello la scrivania, senza sedia però. Un vero stronzo. E per tutti ero il bambino più buono del mondo. 

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