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30/07/20

Benvenuto (è un off topic)

accordo, affare, aiutando

Dopo tanto tempo, in questo spazio, trovo un nuovo follower.
Benvenuto, Franco.
Non so perché tu abbia deciso di seguirmi, ti dico comunque che sono contento.
Sei capitato in una fase della mia vita di blogger un po' stagnante.
Da un lato, sto pubblicando a puntate un mio racconto lungo, in cui cerco di trasporre ciò che ho appreso in un corso di scrittura che ho seguito quest'anno.
Dall'altro, boh, non so, mi convince di più un social come facebook che è veloce, ha più utenti, la testimonianza è un'istantanea il cui valore si registra subito. O piaci, e sei subissato di like, o vieni ignorato.
Questo qui del blog mi pare il regno del silenzio. Non sai se e quanto tu sia seguito. Ci sono le statistiche ma quanto sono attendibili?
Nel silenzio, però, si possono ascoltare i piccoli rumori, le voci sommesse, i sussurri, i respiri.
Io questo spazio non l'ho mai veramente abbandonato. Ci sono affezionato non sai quanto.
Una consulente nella comunicazione strategica, in un periodo in cui m'illudevo di poter diventare famoso nella rete, chissà per quali meriti, poi, mi disse che questo blog era praticamente una ciofeca. Povero, anonimo. Mi suggerì di utilizzare wordpress. Così ho un profilo anche di là. Abbandonato. Questo rimane il mio posto silenzioso, dell'anima. Povero, anonimo e per questo libero. 
C'è stato un periodo in cui i miei post erano molto letti e avevo tanti commenti.
Mi sentivo importante, utile.
Era il periodo successivo al mio matrimonio e a un trasferimento per lavoro. Mi sentivo solo, in una città che non era la mia, con un lavoro che non era tagliato su di me. Il blog fu la mia valvola di sfogo e capii che potevo incidere qualcosa nella vita degli altri. Ho messo a disposizione le mie competenze ma anche le mie fragilità, talvolta, quando avevo bisogno di consigli. 
Ho incontrato alcune persone, qui, e alcune di esse sono diventate anche amiche non virtuali. Non ci siamo mai visti di presenza ma ci sentiamo al telefono. Sono state persone importanti nella mia vita. Una l'ho persa. A lei dedicherò un libro che sto scrivendo. Un'opera folle che mi ha impegnato negli ultimi cinque anni. Un thriller, una cosa che non so se sia una merda o una roba preziosa. La sto correggendo. Poi, chissà.
Nel frattempo, la mia famiglia si è ampliata. Ho quattro figlie, la più piccola ha quasi un anno, il lavoro è diventato più calzante, e scrivo molto su facebook, cazzate, perlopiù, oppure brevi riflessioni su una pagina "psicologica". Scrivere in rete per me non ha un valore commerciale. Mi sostengo economicamente col mio lavoro, un lavoro da dipendente e non ho bisogno di farmi pubblicità, questa è un'altra cosa che mi fa sentire libero di scrivere ciò che voglio.
La mia vita è come un treno regionale. Non è veloce, talvolta fa dei ritardi mostruosi, ma arriva a destinazione. Soprattutto, consente al passeggero, cioè io, di gustare ciò che attraversa. Sono molto attento a ciò che mi circonda, registro le cose più nascoste, i particolari dei paesaggi, i particolari delle persone. Ma non sono un precisino, o un paranoico, registro, tutto qui. E raramente serbo rancore se qualcuno mi offende. Registro e cambio aria, semplicemente. 
Amo il tennis e sono un perenne principiante. Ultimamente c'è un tizio, bravo, che uscito da un infortunio, palleggia con me. Ancora non mi ha dato picche. Dice che gli piace giocare con me. O è pazzo, o è innamorato o è uno di quei visionari che scorgono il buono nelle persone anche se il buono non si vede mica tanto. Magari ha visto qualcosa di buono nei miei colpi. Forse nel dritto a sventaglio, che faccio decentemente.
Mi piace cucinare, poche cose, specie siciliane, perché pur abitando a Verona, io nasco a Palermo e credo morirò lì.
Canto discretamente. Mia nonna era convinta che sarei diventato un anchor man, un uomo di spettacolo. Suppongo che anche lassù non abbia smesso di sperarci. 
Ecco, questo sono io.
Ti ringrazio per avermi scelto, e ti abbraccio.
Ne approfitto per abbracciare caramente chi viene qui a sbirciare. Non è un abbraccio ipocrita. Una volta scrissi che la cosa più onorevole per un uomo è entrare nella vita degli altri rispettandola. Ecco, chi mi legge è entrato nella mia e vi rimarrà.
Ciao, Bruno

25/01/18

Una scelta

Risultati immagini per microfono radio


Ci sono alcune rinunce che diventano rimpianti. Altre no.

Fai delle scelte che, apparentemente infelici, quasi del tutto inconsapevoli, si annidano nel tuo sistema di valori e ti fanno spiccare il volo comunque, in un orizzonte opaco che diventa chiaro quando percepisci, dopo un po' di tempo, cosa hai perso e cosa hai guadagnato.
Avevo diciottanni e una passione sconsiderata per la radio.
Credevo di essere troppo giovane, troppo ingenuo, troppo scarso per fare radio, dunque contattavo le emittenti rionali, quelle infrattate negli angoli più nascosti dell’etere, finanche abusive, anche se non lo sapevo che erano abusive. Mi proponevo e spesso andava bene solo che o non mi piaceva il titolare o erano troppo lontane da casa, o notavo qualcosa di ambiguo e tergiversavo.

Chiamai Lucien. 
Avevamo passato quegli ultimi pomeriggi a studiare la scaletta di quella che sarebbe diventata la trasmissione più incredibile dell’etere palermitano, un perfetto mix di cultura, musica rock, fumetti (Lucien era un appassionato) ed emozioni (mi ero appena iscritto a psicologia e già mi atteggiavo a psicanalista).
- Mi hanno richiamato. Ci fanno un provino domani pomeriggio – la mia voce tremava dall’eccitazione.
- Ma è una radio storica
- Di più è LA radio qui a Palermo.
-  Dobbiamo organizzarci. Capire i nostri tempi. Vieni a casa mia che proviamo.
- Lucien, ce la faremo? – la mia voce era incrinata
- Certo che sì. L’idea è fantastica. Siamo in gamba e non sbagliamo i congiuntivi. 

Ottimista Lucien. 
Tornai a casa mia verso mezzanotte. Avevamo  preparato una scaletta di 20 minuti. Lui parlava dei Pink Floyd, poi entravo io e raccontavo di quel film che aveva vinto non so che premio e che parlava d’amore, poi rientrava lui e leggeva una striscia di Dylan Dog commentandone il senso. Poi salutavamo dando appuntamento all’ipotetica successiva puntata.
L’indomani mattina mi svegliai rintronato. Avevo dormito poco e male. Mi ero tuffato in mare e non ero più risalito, mi ero trasformato in un pesciolino argentato e finivo inghiottito da una balena. Poi mi accorgevo di essere stato sputato sulla spiaggia ma non avevo più la voce ed ero nudo. Telefonai a Lucien.
- Come ci vestiamo?
- Ma stai bene?  Ti sento un po’ rincoglionito.

Ho sempre creduto alla cristallina verità dei sogni e al fatto che siano premonitori se non tanto di un evento quanto dell’atteggiamento di fronte a un evento. E io mi stavo cagando sotto.
 Ho dormito malissimo.
- Riprenditi, fatti un caffè. Dormi! Abbiamo quattro ore davanti.
- Non ce la faccio. Ma ti rendi conto che la nostra vita può cambiare di punto in bianco, Lucien?
-  No. Non me ne rendo conto. Ti stai facendo un sacco di paranoie.
- Come ci vestiamo?
- Ma sei scemo? Normali. Normalissimi. Dovremo parlare davanti a un microfono, non di fronte a una telecamera.

Aveva sempre ragione Lucien. Ma io ero troppo emozionato. A me l’avrebbe cambiata la vita, quel programma. Ci tenevo troppo. Avevo voglia di comunicare, di progettare qualcosa di buono, mi vedevo già in un network nazionale e magari in televisione, dopo il successo in radio. Con o senza di lui.
C’erano dei divani bianchi su una moquette rossa, dei poster dei Beatles, un angolo bar, s’intravedeva una stanza enorme piena di dischi. Accanto alla sala regia c’era un acquario con un paio di pesci tropicali e una specie di pesce palla d’argento. Ebbi un brivido lungo la schiena. 
Il provino durò un quarto d’ora. Io e Lucien andammo a bere una coca nel bar sotto il palazzone che ospitava la radio.
- È andata bene, no? – lui era divertito, spensierato
- Boh?
-  Dai che è andata bene, siamo forti.
- Se lo dici tu.

Sì, era andata abbastanza bene ma in sala regia non vidi nulla che mi facesse immaginare che fossimo piaciuti. Ci interruppero prima di chiudere la mini scaletta e no, non era un buon segno. Ero stanchissimo e sfiduciato. Io e Lucien non ci sentimmo per quasi una settimana. Mi sentivo bloccato, come se aspettassi da lui la notizia. Avevamo dato i nostri numeri telefonici. Avrebbero chiamato o me o lui, indifferentemente. Chiamarono me. Volevano vedermi da solo. Andai, non dissi niente a Lucien.
Mi dissero che io andavo bene, che lavorando sui tempi, con un po’ di pratica, m’avrebbero dato uno spazio e avrebbero investito su di me. Solo su di me.
Ci sono certe scelte che nidificano su un sistema di valori. Quella volta la mia scelta volò e si posò sul nido dell’amicizia.
Rinunciai. “O insieme o non se ne fa niente”.
Infatti non se ne fece niente. 
Lucien non seppe mai di quell’incontro.
Due mesi dopo io ero davanti a un microfono, al decimo piano di un caseggiato popolare. La mia voglia di essere ascoltato attraverso i forellini di una radio fu invincibile. Così mi feci il mio programma, a mia immagine e somiglianza. Due volte alla settimana. Leggevo le notizie, passavo in diretta gli ascoltatori. Alcuni mi telefonavano dicendo che non si capiva una minchia di quello che dicevo e che la musica che mettevo faceva schifo. Dopo di me c’era un tizio che leggeva poesie e faceva girare dischi della tradizione partenopea, tipo Mario Merola. Eppure, ero felice. Senza rimpianti. La titolare della radio spesso mi portava il caffè, abitava accanto,  e più di una volta sistemò lo stendibiancheria pieno di panni  di fronte alla consolle. Ma non m’importava.  
Io ero ascoltato potenzialmente da chissà quante persone. 
Volavo nella città. 
Durò poco ma fu bellissimo.
Avevo perduto un’occasione, ma avevo guadagnato una cosa importante: la bellezza di un progetto, di un sogno condiviso fino all’ultimo. Un’illusione che non doveva essere spezzata. Come quell’amicizia con Lucien.
Chissà oggi Lucien dov’è e cosa fa. E se mai ripenserà qualche volta a quel sogno condiviso, ai miei occhi e ai suoi che incrociandosi si dicevano “ce la faremo”.
Chissà.  

24/11/16

Vorrei essere una voce piccola e sincera


Insincerità. Questa parola mi intriga tantissimo.
Non è bugia. La bugia è un mezzo, l'insincerità è una tendenza, un'attitudine.
I suoi sinonimi sono doppiezza, falsità, finzione, ipocrisia.
Ma insincerità mi piace di più, forse perché insincerità è assenza di sincerità. Nient'altro: una caratteristica di base, una modalità di essere nel mondo.
Posso essere un uomo fondamentalmente sincero ed essere ipocrita con quella persona per una mia convenienza o per non ferirla. Oppure essere doppio, strategicamente o per paura. L'insincero è tutto intriso di bugia. Cresce nella bugia. Ecco perché si dice "insincerità di fondo". 

Ultimamente sono piuttosto intollerante con gli insinceri di fondo. Li mando a quel paese quando vogliono manipolarmi. Perché gli insinceri sono ovunque; la loro arma è la manipolazione e nessuno è esente dall'essere manipolabile. Specie chi ha fiducia negli altri. Chi ha fiducia negli altri ha bisogno di molte prove per dichiarare "insincera" una persona. All'inizio, in buona fede, ci casca.

Provo una certa ebbrezza nello smascherare gli insinceri, che prima ti riempiono di parole, confondendoti, ti aggrediscono, ti riesumano fatti risalenti a quando i Jalisse vinsero a Sanremo, come fosse ieri, e poi fuggono. 
Scoperti, non tornano. Quasi mai.

Osservo un fenomeno, specie nei social, dove pullulano gli insinceri di successo. Potrei chiamarlo "insincerità collusiva".
Le persone hanno la necessità di nutrire la maschera, non la loro, ma quella di chi propone un modo di essere vincente o socialmente appetibile oppure studiato a tavolino per costruirsi un brand. Dalle sfumature, si capisce che è insincero, purtroppo la maggior parte di noi è attirata dai colori forti, non dalle sfumature. 
Abbiamo la necessità di nutrire un modello, di rafforzare quel modello, di contribuire a eliminare il dissenso, perché è meglio illudersi che scoprirsi fregati, presi in giro. Alimentiamo il simbolo che rappresenta il nostro desiderio collettivo. Il dissenso ci impaurisce perché saremmo scoperti anche noi, complici di quel modello.
Il modello diventa la proiezione del nostro desiderio. Lui è come io vorrei essere, quindi lo amo, dico di amarlo e voglio che mi sentano. Lei è come io ho sempre desiderato di diventare, quindi le dico che la amo, lo urlo, voglio che si veda che io la amo. Il modello propone un'immagine, uno stile, un'idea: aggrega un target di persone portatrici dello stesso desiderio.
Io sono uguale a te, il tuo desiderio è il mio, dunque, uniamoci, per salvaguardare e dar forza al modello. 
Contribuendo con il mio gradimento, con la mia approvazione a uno dei diversi totem in circolazione, io rafforzo la mia illusione, quella di poter, grazie al totem, esaudire il mio desiderio, e cementifico, nel mio piccolo, l'illusione collettiva. Non capisco che attraverso la mia adesione incondizionata  al modello, rinuncio ad esaudire il mio desiderio, perché il modello si irrobustisce con l'immaginario e si nutre della frustrazione del desiderio dei singoli. Non capisco che mi allontano dal mio desiderio ma esaudisco quello del totem: avere potere e successo.
Godo nel ricevere attenzioni da quel totem, briciole della sua attenzione: vuol dire che viene riconosciuto il mio contributo. Sono legittimato nel mio desiderio.
Fino a quando qualcuno, con la sua voce piccola, tra gli applausi, in un attimo di silenzio, dice la verità e strappa la maschera. Dapprima arriva una nuova colata di cemento che ricopre quell'elemento di diversità e di contrasto. Poi, il dubbio s'insinua nelle menti più aperte e il totem comincia a traballare. 
E' che abbiamo così tanta paura di essere esclusi, di essere considerati pazzi, invidiosi, ciechi! E inghiottiamo la nostra vocina, rinunciando a diffondere la nostra piccola verità. Rinunciamo a essere venticello caldo sul ghiacciaio.

Da bambino, nel mio penny rosso, ascoltavo le Favole sonore, quelle con la canzoncina "A mille ce n'è", se non ricordo male. 
Ne avevo tante, anzi, ne avevamo tante io e mio fratello, e un giorno di guerra fredda, quando decidemmo di dividere la stanza in due parti con una fila di scarpe (io mi presi la zona tv concedendogli la visione di ciò che decidevo io di vedere), ci spartimmo pure i libretti coi dischi delle favole. 
Pretesi, tra le altre fiabe sonore, "I vestiti nuovi dell'imperatore", un racconto affascinante, ironico e divertente, catartico nel suo finale che rende giustizia alla voce piccola e ingenua, una fiaba meravigliosa nella sua denuncia, a filo di metafora, dell'inganno del potere e del silenzio connivente dei deboli, complici, spesso inconsapevolmente, di un potere manipolatorio.

Oggi, di fronte a un osanna di un esercito di deboli conniventi costruttori d'illusione, rivolto a una persona buona come una marmellata piena di anidride solforosa, ho avuto paura di essere escluso e ho ingoiato la mia piccola voce. Ho ripensato ai vestiti dell'imperatore e, pur incazzato, ho sorriso, perché m'è venuto in mente che in quella divisione concessi a mio fratello la scrivania, senza sedia però. Un vero stronzo. E per tutti ero il bambino più buono del mondo. 

07/07/16

Un balcone fiorito, una telefonata, lo "Stare".


Ieri sera, alle nove, mi è arrivata la telefonata di una mia Maestra. 
Sta leggendo il mio libro e vuole darmi un primo riscontro. 
Mi ha detto delle cose molto belle e mi ha mosso qualche critica. Giusto. Ne farò tesoro.  

"Non vorrei ferirti..."
"Lo sai che un tempo le critiche mi ferivano e dovevo tamponare il sangue per ore... Adesso non è più così. Accetto la critica che mi fa crescere. Rispondo a tono quando è gratuita e vuole farmi male per il gusto di farmi male. Ho perso un sacco di buoni contatti per aver risposto a tono..."
"Erano buoni contatti, non contatti buoni..."

Abbiamo finito di parlare a mezzanotte.

"Mi piacerebbe vedere la tua faccia, i tuoi occhi mentre ti parlo. Se sei imbronciato, se sorridi, se sei perplesso...".
"Sorrido. E ti ascolto. Gli occhi sono umidi e c'è quella ruga tra gli occhi tipica di quando sto attento e rifletto... la mia ruga del pensiero!"

A un certo punto il discorso girava intorno a un punto: cosa ti aspetti nel momento in cui cominci, come uno scultore, a cambiare l'altro? E' un atto egoistico? Vuol dire aiutarlo? Lo vuoi a tua immagine e somiglianza? 
Nel lavoro terapeutico, la "scultura" consiste nel creare un paio d'ali a chi ti sta di fronte. Il fine è quello. Entrare, uscire da una vita, provare compassione, tenerezza, rabbia, rifiutare il tuo interlocutore, per poi sentire che solo tu, in quella fase della vita, puoi cambiare il suo destino. E' un lavoro difficile e bello. E' aprire una finestra chiusa, dice la mia Maestra. E' un tuffo in un mare sporco per recuperare tesori nascosti sott'acqua, aggiungo io: mi piace questa metafora. 
Questo lavoro di scultura possiamo farlo tutti. Tutti possiamo essere terapeuti dell'anima. Noi possiamo cambiare il destino degli altri, anche solo con una parola. Magari ti sembra che si disperda nell'aria, ma ogni parola detta non è mai persa e se ti pare persa, può esserlo per te e non per l'altro. Poi, se la parola origina dal cuore emergerà prima o poi nella vita dell'altra persona, e spesso improvvisamente. Le parole non dette, invece, non hanno un destino, un destino di relazione, intendo. Non dire quella parola, specie se è una parola d'amore, non è forse un atto d'egoismo? Ne parlavo proprio qualche giorno fa con un mio amico. Mi piace pensare alla parola, alle parole, come gocce che scavano e forgiano il materiale grezzo di una relazione nascente. Come se fosse pietra da modellare. Se impermeabilizziamo alle parole la relazione, il non detto spegne l'orizzonte, ci si chiude al cambiamento.

"Mi piacciono i tuoi corsivi. Ce n'è uno che mi ha colpito, mi ha steso, mi sei sembrato... poetico... Montale... come Montale".
"Addirittura! Ma cosa ti ha colpito?"
"T’inseguo, ti prendo, mi sfuggi, ti riprendo, m’insegui, mi prendi, ti sfuggo, mi riprendi. Godo nel farmi prendere ma altrettanto nel fuggire e, alla fine, sorprendentemente, quando mi volto, non ci sei più."
"Ah, quello... sull'incapacità dello stare, del godere della presenza..."
"Quando sei didascalico, però, perdi lucentezza"
"Volevo essere divulgativo... chi mi legge non è uno psicologo, non è quello il mio target di riferimento. E' il geometra, l'ingegnere, la commessa, la segretaria, il poliziotto, l'imprenditore, il macellaio, l'insegnante, la parrucchiera... Non è un testo tecnico."
"Non è tanto questo. E' che non capivo, nel non corsivo, se fossi tu che parlavi o parlavi perché aderivi, che ne so, al filone di Goleman o a quello di Sullivan oppure non lo so... se fosse roba tua".
"Sì è roba mia, anche se ciò su cui rifletto è mediato dalle mie conoscenze teoriche, da ciò che ho letto ed amato..."

Le ho spiegato del blog, di com'è nato, della sua funzione per me e di come sia stato d'aiuto a molti.
Siamo finiti a parlare di lungomari, gelsomini, della Palermo antica, di come decisi di iscrivermi a Psicologia, della nostra difficoltà a vivere di compromessi, di come questa cosa ci faccia sentire indipendenti ma a volte ci faccia sentire soli.

"Ho cambiato casa. Ho venduto quella nella strada principale piena di negozi e di traffico e sono venuta qui, dove sfrecciano le rondini e sento i bambini giocare nel cortile. Era vecchissima, adesso è nuova, ma si respira la storia".
"Bello..."
"Qui, nel mio terrazzo, a casa nuova, col venticello leggero che sa di mare, mi sento libera. Ho le mie piante, le curo, le taglio, le travaso, le vedo crescere, le sfioro, le innaffio... Di fronte ho la piazza antica, i lampioni con la loro luce dorata, la chiesa normanna, mi piace passeggiare, perdermi nelle viuzze e ritrovarmi improvvisamente al mare".
"Tutte le strade portano al mare a Palermo..."
"Io amo questo posto"
"Anch'io, figurati come mi sento qui in pianura... meno male che c'è il lago e il fiume... sai, quando sono lì, sulla riva del fiume, mi pare di sentire in lontananza il mare... Attenta ai borseggiatori"
"Sì, a una certa ora torno a casa. Sono una donna sola e, lo so, dopo le nove è meglio ritirarsi..."

Siamo stati tre ore al telefono. 
E' servito a lei, è servito a me. 
Non ci vediamo... da quanto? Boh... saranno sei anni...
Ci siamo sfogati, raccontati, ricordati. Alcune cose lei non le rammentava, per esempio, come ci eravamo conosciuti e come mai scelsi psicologia. 
In quelle tre ore siamo "stati". 
Non sono sfuggito.
Quindici e passa anni fa, dopo la laurea, che per me fu un momento importantissimo e intensissimo, fuggii, e non volli sentirla. Perché sapevo che non avrebbe approvato la scelta professionale che stavo per compiere. Ci sentimmo cinque anni dopo. Mi sentivo in colpa. Perché sapevo che lei aveva investito su di me, e io l'avevo tradita. col silenzio. Con le parole non dette che avevano reso intoccabile il mio destino.
Fu dolce. Mi offrì un caffè e mi chiese sorridendo di raccontare la mia storia di quegli ultimi anni. Mi diede un suggerimento, come fa lei, tra le righe. Lo colsi e scelsi, quella volta, seguendo il mio istinto, dando voce alla mia anima.

La telefonata di ieri sera, mi fa male ammetterlo, e lo faccio con un nodo alla gola, è una di quelle telefonate che sai saranno le ultime telefonate.

"Mi piacerebbe vedere casa tua, le tue piante, il tuo balcone, spero di venire prossimamente".
"Ho dato tre feste in quest'ultimo anno. L'ultima, per il compleanno di mio nipote, è stata bellissima, c'era un mare di gente, allegria, gioia".
Non ha risposto al mio autoinvito. Ma io voglio assolutamente rivederla. E presto.



02/04/16

Cuore di cane



Quel pomeriggio Bruno non aveva voglia di studiare.
Non era una novità. Preferiva smanettare sullo stereo argentato facendosi rapire da canzoni e parole.
S'appoggiò al vetro della veranda. Guardò fuori.
L'immenso aranceto che si fermava nella linea blu del mare stava per essere mangiato dal cemento. Sapeva che da lì a due anni quella striscia di blu l'avrebbe solo immaginata dietro agli undici piani di cemento armato dei mostri in costruzione.
Il cielo di dicembre si fece grigio e cupo. Cominciò a piovere a dirotto.
Gli piaceva guardare l'acqua scrosciare sul vetro della finestra.
Cambiò frequenza.
Un signore dall'accento pesante stava leggendo un indovinello. In palio un disco.
L'emittente non la conosceva bene. Era una di quelle di periferia ma aveva un'ottima emissione, chiara, limpida.
Telefonò.
Vinse.
Si mise in contatto con lo speaker.
- Che disco vuoi?
- Veramente mi piace l'ultimo della Mannoia...
- Ma in diretta non mi hai detto che avevi sedici anni?
- Sì, ho sedici anni. Diciassette a febbraio.
- La Mannoia...
E cominciò a ridere. Poi continuò.
- Senti, io ti faccio trovare il disco della Mannoia, vieni fra qualche giorno, ok? Venerdì prossimo. Sì, venerdì è il giorno giusto. 
- Posso venire solo di pomeriggio. La mattina sono a scuola.
- Va benissimo.
- Arrivederci.

Bruno pensò di essere stato preso in giro. Glielo disse pure suo padre: "nessuno regala niente per niente".
Decise di non andare. Magari era tutta una messinscena, quella del disco in regalo. Così, per aumentare gli ascolti.
Venerdì pomeriggio, però, decise di andare in radio, non dicendo nulla a casa.  S'inventò che avrebbe dovuto comprare un libro di scuola.
Era curiosissimo di vedere com'era fatta una radio. Quella si trovava in uno stabile vicino al Ponte del fiume Oreto.
Ci andò a piedi. Faceva un freddo strano, il freddo dicembrino di Palermo, folate di freddo e folate di caldo, alternate.
Nonostante la bruttezza di quella strada, le luci colorate del Natale che incorniciavano le insegne delle botteghe rendevano quel pezzo di città quasi romantico. Di una romantica desolazione.
Il fiume coi suoi liquami scorreva veloce verso il mare. Bruno si sporse leggermente dal ponte. In mezzo al fiume c'erano lavatrici e frigoriferi arrugginiti.

Arrivò. La radio si trovava al dodicesimo piano. Gli aprì un quarantenne con una faccia da illusionista da circo: capelli neri impomatati, sguardo scuro e penetrante, pallidissimo.
Gli fece visitare l'emittente. Niente di che. Un appartamento appena intonacato con quattro mobili in croce e una saletta regia dietro una vetrata ricavata in una parete in cartongesso.

- Mi dispiace ma non ho potuto comprare il tuo disco... abbiamo avuto da fare qui, stiamo rinnovando la radio, abbiamo preso dei contatti con un network nazionale e ci vogliamo presentare bene. Cos'era? Paola Turci?
- No, l'ultimo di Fiorella Mannoia.
- Senti, facciamo così. Ti faccio una cassetta con venti canzoni, belle belle, attuali. Che ne dici? E te la vieni a prendere, che ne so, dopodomani, eh?
- Ma io mi aspettavo il disco.
In modo un po' spocchioso, l'uomo prese il portafogli.
- Tieni ventimila lire e vatti a comprare il disco che vuoi, ma dopo torna qui che voglio sapere se sei andato a comprarti il disco o a fare altro. Dammi il tuo nome, cognome e numero di casa.

Il ragazzo si sentì umiliato. Ma anche coraggioso. Percorse un chilometro a piedi. Cominciò a piovere. Si riparò sotto la pensilina dell'1 che passò due minuti dopo. Lo prese al volo. L'autobus era quasi vuoto.  Bruno aveva la mano nella tasca dei jeans e toccava il foglio da venti. Era contento ma inquietato da quell'incontro. Aveva notato un divano letto e una specie di cucina in una stanza della radio. Come se ci dormisse qualcuno. E pochissimi dischi.

Arrivò in Piazza Stazione. Scese dall'autobus. Non pioveva più. Due uomini dell'est suonavano le cornamuse. Si avvicinò alle bancarelle all'angolo di Via Maqueda. Ce n'erano due che vendevano musicassette e dischi. Molta roba fasulla, alcune cose originali.
Trovò il disco alla seconda bancarella. Cellofanato e lucido.
Tornò quasi di corsa in radio. Aveva duemila lire di resto con sé. Era eccitato, contento, fiero del suo acquisto.
L'uomo allampanato prese il disco, lo maneggiò con un'espressione divertita.
- Ma ti piace veramente, allora.
- Saranno belle canzoni - Bruno gli porse il resto.
- Tieni pure le duemila lire. Prenditi l'autobus che piove.

Quella sera il ragazzo lo suonò cinque volte. Fece tardi ma non gliene importò.
L'indomani a scuola non erano previste interrogazioni.
Lo colpirono soprattutto due pezzi: Cuore di cane e Lunaspina.
Cuore di cane gli sembrò una poesia in musica e sognò di essere lui il ragazzo della canzone, in fuga, sperso nel mondo, accarezzato dalla luna.
Lunaspina gli metteva tristezza, e sentiva ogni volta un groppo in gola. Gli parve una canzone di disperazione e speranza ma non capiva quale dei due sentimenti prevalesse.

Ascoltò quel disco tante volte.
Credette di essere l'unico sedicenne che s'emozionasse così, al suono di quelle note e di quelle parole così profonde. Si rincuorò, poi, quando Rosangela, la sua compagna di classe, gli chiese di farle una cassetta con le canzoni del disco. Non si sentì più così strano.

Se chiude gli occhi, adesso, a distanza di venticinque anni, Bruno riesce a rivedersi sdraiato sul tappeto persiano rosso e oro del salotto di casa, di fronte a lui il disco che gira, nelle orecchie il rumore dolce della puntina che scorre nei solchi.
Risente anche il battito lontano di un cuore che corre verso le stelle e non si vuole fermare.



19/11/15

Ho comprato persone



Sì. L'ho fatto. 
Su facebook. 
Ho messo in evidenza, a pagamento, due articoli  nella pagina che promuove il libro. Sono arrivati centinaia di contatti.
Un'umanità assai eterogenea.

22/04/15

Fiducia



E' da un po' che rifletto sull'esperienza della fiducia.
Tutto parte dalla constatazione che pochi, davvero pochi possono essere i consegnatari delle chiavi del tuo cuore. Che pochi possono essere i consegnatari delle tue chiavi di casa.
Ciò non toglie che alcuni possono essere degni della tua fiducia. Incondizionata.

La mia idea di fiducia non ha perso smalto nel tempo. Credo che la molla per far decollare ogni relazione sia la fiducia reciproca. Adesso la mia idea di fiducia è più orientata alla qualità che alla quantità.
Rileggendo il libro che ho scritto, mi sono reso conto che mancava proprio questa puntualizzazione. Decantavo troppo lo slancio alla fiducia, la bellezza di mettersi nelle mani dell'altro, di abbandonarsi alle sue cure ma non sottolineavo l'operazione selettiva che sta alla base dell'individuazione di chi può veramente aiutarci.

La fiducia incondizionata negli altri è patologica, così come la sfiducia ad ampio raggio.
Fidarsi è bene, non fidarsi, talvolta, è meglio.

La fiducia si apprende da piccolissimi, quando attendi la tetta e la tetta arriva. Quando aspetti l'abbraccio caldo e questo arriva. Quando stai per cadere e qualcuno ti sostiene. Quando sei malato e, aprendo lentamente gli occhi che ti bruciano, vedi qualcuno che strizza la benda bagnata e te la poggia sulla fronte.

Alcune persone mi hanno consegnato le chiavi della propria anima. Un'anima tormentata, talvolta, altre volte asettica come l'aria delle camere iperbariche.
E' proprio questa seconda situazione psichica che mi pare si stia diffondendo. Persone che, non avendo assorbito amore, cure, attenzioni e sostegno, rinunciano a procurarseli e si rassegnano, non lasciandosi andare nemmeno più alla tristezza. Tengono tutto sotto controllo, stanno in un equilibrio stabile ma appaiono come robotizzate. Sembrano serene ma, in realtà, posseggono emozioni surgelate. Cerchi di stimolarle a scoprire i loro moti interiori e... niente. Dentro non risuona nulla.
Possibile che non siano dotate di un bagaglio emozionale standard? No. Sono congelate. Sintonizzate su un livello psicorelazionale stereotipato che consente loro di non accedere alle proprie profondità e nemmeno a quelle degli altri. Hanno sviluppato solamente l'intelletto, il ragionamento e l'osservazione in superficie delle cose.
Chi ha un'anima tormentata ti vomita il suo malessere senza farti attendere. rischi di sporcarti ma non t'interessa, se ci tieni veramente a quella persona.
In tutto quel grumo indistinto di rabbia e dolore devi selezionare ciò che può essere utile al tuo interlocutore e al vostro rapporto. L'emozione è immediatamente svelata, mescolata con altre emozioni, sì, ma è lì, nelle maglie della vostra relazione nascente.

L'operazione di scongelamento di chi ha rinunciato a toccare le proprie emozioni, a volte è difficilissima. 
Il pensiero ricorrente è: "Perché devo vivere emozioni negative che non ho mai vissuto? Meglio aver accettato una realtà senza soffrire, no?". Il problema è che quella realtà avrebbe dovuto suscitare una valanga di emozioni negative e ciò non è accaduto, perché la valanga si è trasformata in ghiacciaio. Pericolosissimo. Anche molto tempo dopo, un vento caldo può farlo crollare e diventa complicato riacquistare una nuova dimensione, più morbida, fluida.

In ogni caso, se il tormentato e il surgelato hanno fiducia in te, tu puoi agire. 
Deve scattare qualcosa affinché possiate siglare il patto di fiducia. Simpatia, forse. Familiarità, sintonia, complicità. Quel qualcosa che lega due persone al di là delle loro appartenenze e delle loro storie di vita.

"Come faccio a capire se posso fidarmi, se posso dare la mia fiducia a quella persona?".

Un piccolo vademecum, approssimativo come tutti i vademecum.

1. Guarda bene i suoi occhi: comunicano interesse attivo o solo morbosa curiosità? Nel primo caso lo sguardo è dolce, attento, nel secondo è malevolo.
2. Non ti chiede nulla in cambio. Nulla. Se dovesse chiederti qualcosa in cambio, dopo averti ascoltato, e il vostro rapporto è solo amicale, cambia aria.
3. Ti fa aprire raccontandoti la sua esperienza, mettendoti a tuo agio.
4. Non ha un tono giudicante, né saccente.
5. Ti tocca un braccio, ti fa una carezza, ti dà una pacca sulla spalla.
6. Ti offre un caffè. 
7. Non ti dà una soluzione preconfezionata ma ti aiuta a trovarla.
8. Si commuove se ti commuovi, ride se ridi.
9. Ti dice che puoi contare su di lui/lei e puoi chiamarlo/la quando vuoi.
10. Ammette di non poterti aiutare, perché non ne è capace, ma si mostra sinceramente dispiaciuto e si mette a disposizione per un'altra situazione alla sua portata.
11. Se ti abbraccia, ti senti "a casa".
12. Non la butta sul ridere, solo per tirarti su il morale, quando la faccenda è seria.
13. Sdrammatizza, ma in modo delicato e rispettoso, se tendi ad ingigantire il problema.
14. Anticipa il tuo bisogno, ovvero comprende il tuo stato, prima che tu glielo spieghi dettagliatamente.
15. Hai sensazioni corporee positive. Senti calore, ti senti a tuo agio, protetto, al sicuro, il cuore rallenta il suo battito, il respiro si apre e le lacrime, se escono, non ti fanno sentire stupido.
16. Si fa trovare se lo/la cerchi. Non ti chiude il telefono in faccia. Non inventa scuse. Ti dona il suo tempo. Te lo dona!!

In definitiva, riponi pure la tua fiducia in una persona che si dona.

29/09/14

Successi e rinunce


Vi aggiorno su alcune cose.
Intanto, grazie per aver risposto alla mia richiesta di aiuto di qualche settimana fa. Vi devo delle spiegazioni.
Ho avuto dei contatti con una trasmissione televisiva molto leggera che mi ha chiesto un breve video di presentazione. E' una trasmissione per donne e ciò a cui avevo pensato era un ruolo di "psicologo express" per donne sull'orlo di una crisi di nervi. Mi serviva qualche domanda reale per poter offrire una risposta veloce e ironica. 
Sono stato molti giorni a pensare, ripensare sull'opportunità di questa cosa. Come si inserisse nella mia vita e se avrebbe potuto portarmi benefici e soddisfazione.
Ho anche chiesto in giro consigli su come fare il video, come vestirmi, come pettinarmi... Alla fine ho preso una decisione che appare come una rinuncia ma sono sereno. E' no. 
Amo molto il mezzo televisivo, credo che sia potentissimo per trasmettere informazioni e anche stimoli per crescere. Questa non era un'opportunità di crescita né per me né per gli altri. 
E' appunto il dover apparire in modo standardizzato e un po' fighetto per poter accedere al mezzo che mi ha reso inquieto e che mi ha fatto desistere. Non posso curare l'apparenza, magari snaturandomi, per poter dire delle cose mie, sincere.

Sto lavorando al libro che mi sorprende ogni giorno di più. E' come se leggessi un diario ingiallito in cui non mi ritrovo perfettamente. Sto cambiando molte cose, come sono cambiato io in questi ultimi anni.

La scorsa settimana ho giocato a tennis con uno bravo. Ho dato il massimo. Prima di entrare in campo ho chiesto al vecchio gestore dei campi se ci fosse qualcuno scarso come me con cui giocare. Alla fine dell'ora è venuto a parlarmi. Mi ha detto che mi aveva guardato senza che me ne accorgessi e che uno che regge trenta scambi non può essere scarso. "Tu sai giocare". Così mi ha detto. E questa cosa mi ha reso veramente contento.
Il punto di svolta, improvviso, c'è stato due settimane fa, quando, dopo una mattina infernale, in cui mi ero arrabbiato molto con una persona con cui avevo sempre mantenuto la calma, avevo la consueta ora di allenamento. Ho giocato libero da tensioni. Mi sono divertito e ho scoperto che il mio braccio era bloccato da qualcosa che non c'entrava nulla con la tecnica, né con la motivazione. Spero di continuare su questa strada senza dovermi arrabbiare la mattina prima dell'allenamento. Ora so di saper giocare.

  "Abbiamo sicuramente qualche credenza negativa su noi stessi. Piccola o grande che sia. Chi ci sta intorno può rafforzare questa credenza negativa rendendoci ancora più succubi di essa. I motivi possono essere tanti. Fino a che, quasi magicamente, qualcuno rompe l'incantesimo e ci dice le cose come stanno. Offrendoci, magari, una versione più positiva della nostra credenza. O un suggerimento per essere migliori. Perché di solito siamo noi i peggiori giudici di noi stessi e abbiamo bisogno di qualcuno che riconosca le nostre qualità positive e le riaccenda!" (dal libro "Apri")

Ciao cari, a presto!

24/03/14

Sindrome da lumaca? Una lettrice si racconta


"Una piccola riflessione basata su un'esperienza personale.
Io da quando sono nata sono una bomba atomica di ansia. Forse perché nascere in un'iperprotettiva famiglia siciliana fa malissimo :-) (non so se hai in mente l'atteggiamento delle nonne siciliane nei confronti dei nipoti: "non correre che cadi, non giocare troppo che se no non studi, non guardare troppo i ragazzi che poi diventi svergognata")...