17/01/19

Il panaro



All'incrocio che attraverso ogni giorno per andare al lavoro, mi giro perché sento qualcuno gridare: "Forza, dai, dai, non ti preoccupare, vai!". C'è un uomo giovane che sta con le mani a coppa e guarda su, in direzione di un balcone al secondo piano. Vi è affacciata una donna che ha in mano qualcosa. "Dai, forza!", l'uomo la incita. Lei rimane ferma, sembra custodire tra le mani qualcosa di prezioso. Poi si decide e lascia cadere l'oggetto dalle mani. Si sente un vetro spaccarsi e rumore di ferraglia sparsa. Era un cellulare. L'uomo si inginocchia, si mette le mani tra i capelli e si dispera. La donna ha le braccia aperte e fissa smarrita la scena. Non ho tempo, m'incammino, attraverso le strisce, mi volto un secondo, l'uomo è ancora per terra, e sta raccogliendo i pezzi di ciò che, molto probabilmente, non può più essere recuperato.
M'immagino il dopo: lui che dà la colpa a lei perché il lancio non è stato ben calibrato, lei che accusa lui perché non è stato pronto, scattante, o gli dice che avrebbe potuto tranquillamente farsi due piani di scale per prendersi il cellulare dimenticato.
Che scena surreale! Che scelta assurda quella di lanciare un telefonino dal secondo piano!
Siamo al nord. Mi rendo conto che, forse, giù dalle mie parti, non sarebbe accaduto tutto ciò.
Noi abbiamo la cultura del panaro, del paniere di giunco che si cala con una corda: un oggetto vintage e multifunzione. Una cultura che pare esista ancora oggi nei "piani bassi", anche se mia zia aveva un panaro che mollava giù dall'ottavo piano.

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