06/01/23

Fast food

 Ho portato a lavare la macchina. Ho un’ora scarsa da passare nei dintorni. Fa molto freddo. Il posto più accogliente in questo stradone commerciale è il McDonald’s. Entro. Ho voglia di patatine; ne prendo una porzione media. La sala è quasi vuota. Mi siedo e provo la stessa emozione di sempre, quando mangio al Mc: una tristezza che forse è malinconia o nostalgia per ciò che ho perso, annebbiamento dei pensieri, ma anche anestesia. Mi succedeva anche quando vivevo a Roma. Tra il Mc di Re di Roma e quello della Tuscolana, preferivo quest’ultimo. Più sobrio, più mesto. Ci andavo spesso, e mi calavo anche lì in quella dimensione catatonica in cui annegavo le preoccupazioni, le ambizioni, i dubbi, le domande. Anche adesso, in quest’angolino anonimo e standardizzato, che mi induce a una visione più netta di ciò che si ha dentro, mi sento triste. C’è un ventenne magrissimo di fronte a me. Ha un ciuffo biondo, indossa una tuta di acetato blu, ha un piercing al naso, smanetta sullo smartphone e sorride. Addenta un panino, mangia indolente delle patatine, beve una coca. Così uguale ai suoi coetanei. Riceve una telefonata, si rabbuia. Dice “no”, “non voglio”, “vaffanculo, non voglio” e chiude la comunicazione. Si concentra sul panino. Per un attimo mi guarda. Ha occhi chiari, tristi, forse ha riconosciuto la mia tristezza. Tra tristi ci si riconosce. Potrebbe essere mio figlio. Gli chiederei “ragazzo, cosa ti turba? Con chi ce l’hai? Perché sei solo?”. Viene da una palestra. Ha un borsone con la scritta di una polisportiva. Fa una chiamata. “Da lui non ci vado, hai capito?”. E chiude. Mangia le ultime patatine. Smanetta ancora sullo smartphone e sospira. In sottofondo c’è True blue di Madonna. Lui non era nato. Io avevo vent’anni. Perché sei triste, ragazzo? Mi risponderebbe: “cosa vuole da me?”, “che cazzo vuoi, stronzo!” oppure “ho bisogno di piangere”. Gli direi “piangi pure ragazzo mio, mica è un disonore”; lui mi direbbe “mi vergogno”, gli risponderei “piangere fa bene, te lo dice uno che non piangeva mai e ingoiava litri di dolore”. “Non voglio stare con mio padre. Lo odio”. “Perché?” gli chiederei. Mi risponderebbe: “Perché mi ha abbandonato da piccolo e ho dovuto sopravvivere a quest’assenza”. Ragazzo, ti direi di farti aiutare, di non vivere la tua tristezza in solitudine, perché hai diritto alla felicità. Ti convincerei a chiamare un amico. Ognuno ha diritto alla felicità. Si alza, svuota il vassoio, si infila il berretto di lana. Si volta a guardarmi un nanosecondo. Tira su il suo borsone ed esce. Si accende una sigaretta e va via avvolto dal fumo bianco della sigaretta e del gelo. Ci sono troppi figli soli e pochi padri.

5 commenti:

  1. Sempre bellissima la tua scrittura: efficace, talora cruda come un pugno nello stomaco, ma vera!!!
    Grazie, Bruno!!!

    RispondiElimina
  2. A volte restano anche troppi padri ad invecchiare da soli, e troppi figli che aspettano e basta.

    RispondiElimina
  3. Grazie per il tempo e la dedizione che hai dedicato a questo blog

    RispondiElimina

commenta perché... condividere fa bene!