04/06/20

Con un filo di voce

Non mi sono gustato la pasta, perché ho pensato a quello che dovevo dire.
Sarò sintetico, non mi va di essere patetico. Sono io il vip, qui.
Allora? Tamburella sul tavolo e mi strizza l'occhio.
Eh.
Mmm.
...
Forza! Non sprecare quest'occasione.
Mi sta offrendo un'occasione, secondo lui.
Mi esce un filo di voce. È una sensazione orribile. Come se le mie corde vocali e assieme a loro, tutto il mio corpo, andassero per i fatti loro.
Mi accade quello che non avrei mai voluto che accadesse. Mi metto a piangere. Niente di spettacolare, solo strisce di lacrime che mi irrigano le guance.
Io non so il nome delle persone, non lo chiedo mai, perché non conosco nemmeno il mio nome. Ormai è una sigla, un autografo, il segno del successo, un successo del cazzo, non mio, ma di altri. Non so più chi sono. Me lo chiedo ogni mattina quando prendo a pugni il cuscino. Sono figlio unico, sono orfano di padre, genitori normalissimi, lui lavorava ai cantieri navali, una specie di elettricista, aveva la seconda media. Era un uomo molto bello, forte, dal cuore fragile, di poche parole e poco profonde. Mio nonno materno aveva una cartoleria conosciuta. Mia madre ha finito le magistrali, aveva una bella testa. Adesso ha l'Alzheimer che gliel'ha massacrata la testa. Abbiamo vissuto dignitosamente anche se mio nonno non ha mai accettato mio padre, non riusciva a parlarci, lo considerava un banale operaio. 
Mi accorgo che non sto seguendo la consegna implicita di Giacomo che è raccontarsi con poco, perché quel poco, in un'amicizia tra quarantenni, basta.
Scusa, sto divagando.
Quello mi fa cenno di continuare.
Arriva il mio secondo.
Ti sei salvato, dottore, goditi la tonnina che chissà quando ti ricapita.

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