Pago l’affitto in contanti ogni primo del mese all’agenzia immobiliare di Via delle Cave di Pietralata. Il locatore, una società di cui non ho mai conosciuto i rappresentanti, ha ammesso solo questa forma di pagamento. Oggi l’agenzia mi ha rifiutato i soldi. “Per te hanno già fatto”. Ho chiesto chi, perché. Mi hanno risposto che l’affitto è pagato per un anno intero.
Roma è la città delle lunghe,
morbide condivisioni e degli addii repentini, delle volatilizzazioni.
Nelle ultime settimane sono
scomparse dalla mia vita due persone. Entrambe di mercoledì mattina, mentre ero
al lavoro. Non sono andate via per colpa mia - stavamo bene assieme e io sono
uno che si affeziona e che soffre gli addii - ma mi hanno lasciato senza darmi
una spiegazione. L’ho trovato crudele. Può morire una pianta, come la mia menta
perché ho dimenticato di innaffiarla; può volare via il canarino dalla gabbia,
o perdersi il gatto e non ritrovarlo più, ma una persona che non ti dice perché
non ci sarà più nella tua vita, ecco, questo tendo a non sopportarlo. Mi fa
male. Mi fa piangere. Non devo piangere.
Magari è anche giusto così, mica le
fughe vanno spiegate, altrimenti non sarebbero fughe, però mi aspettavo un
commiato più strutturato: ciao, ci risentiamo, ma non hai il mio numero, che
scemo, eccotelo, ti sto chiamando, salvatelo. Quando vuoi venirmi a trovare,
basta un messaggino, cavolo mi sto commuovendo, abbracciami.
E invece, no. Sono nuovamente solo. Non dovrei sentirmi solo. Sì, adesso c’è
Cosimo. Ma quanto durerà?
Roma è così piena di gente.
Strabordante di gente. È un mondo di gente. Normale che qualcuno si perda, non
venga inglobato nella moltitudine, fuoriesca. Esiste un destino di solitudine
ineluttabile come il mio?
Il mio psicologo dice che sono affezionato al ruolo di orfanello smarrito, e che lo difendo con una certa superbia. L’ho odiato quando mi ha spiegato questa cosa. “È una specie di lutto che non superi mai perché lo indossi come un jeans, lo sbatti in faccia agli altri che ne hanno avuti altri di lutti, innumerevoli lutti, che tu non sai. A trent’anni, dovresti svestirti di questa maschera piangente”. Gli ho risposto che dovrei fare un sacco di cose che non ho ancora fatto: tagliarmi i capelli, aggiustarmi i denti, scusarmi con Katia che ho mollato prima che scoprisse che spesso non mi tira, ecco, prenotare da un urologo, o da un andrologo, che suona meglio, ah sì, anche prendere un treno per andare a pulire la tomba dei miei. Lui ha scritto qualcosa sul suo taccuino. Io ho abbassato lo sguardo sulle mie mani, sulle mie dita intrecciate, sulla pellicina superstite nell’indice. Mi piacerebbe dire al mio psicologo che sono più concentrato sul “vorrei”, adesso, e che vado da lui, e lo pago, per essere legittimato a volere questo volere. Lo pago per capire se è giusto volere, se è normale, nelle mie condizioni, volere.
Dopo il tramonto, questa parte di città si traveste di mistero e di silenzio intervallato solo da canti orientali, sparute sirene delle forze dell’ordine, il pianto dei neonati.
Hassan mi incarta il panino. Il suo è il kebab più buono della zona. Come al
solito, mi regala una lattina di coca. Io gliela vorrei pagare. Ogni volta, mi
dice che sono buono e che merito un regalo. Studiava lettere antiche a
Istanbul. Ha dovuto cambiare programmi. "Del resto" - mi ha detto una
sera - "la vita è come un autobus. A volte devi salire su quello
sbagliato, l’importante è non beccare il controllore." Allora, io gli ho
detto che mi sono laureato in filosofia a ventitré anni ma dalle mie parti
hanno tolto la fermata. Abbiamo riso. Quella sera gli ho augurato di scendere
presto dall’autobus e di prendere un tram.
Sono un po’ in imbarazzo, stasera:
gli chiedo di tradurre ciò che è scritto sul foglio che vibra tra le mie dita.
Lui si lava le mani, prende il foglio, lo esamina, sorride, corruccia lo
sguardo. Si gratta la barba. Mi chiede chi l’abbia scritto. Rispondo: un amico.
Mi dice che il mio amico è bravo, è un poeta. Mi promette che a mezzanotte,
dopo la chiusura, mi fornirà la traduzione. Chissà se Hassan ha degli amici.
Suppongo di sì. È nella natura dell’uomo socializzare, creare e rafforzare
legami. Credere nel legame. Sapere che puoi fidarti di, appoggiarti a,
camminare insieme con.
La mia natura è dilaniata. Non incentivo contatti che vadano al di là di una
frequentazione superficiale. Sono come una nave senza approdo, perennemente in
mare, di notte. Vorrei accanto un amico vero, uno a cui vomitare tutto il male
che hai dentro e che abbracci dopo che ha pulito, in ginocchio, il tuo vomito.
Il mio psicologo non è un mio amico, perché lo pago. Non sarà mai mio amico.
Non si inginocchierà mai per raccogliere il peggio di me. Lo catalogherà seduto
comodamente su una poltroncina Ikea azzurra.
Torno a casa. Faccio i sei piani a
piedi. Accendo la radio, solita stazione, che trasmette musica degli anni
Ottanta. C’è una canzone che metteva sempre mio nonno quand’ero piccolo. Si
chiama Electric dreams o una cosa simile. Era la colonna sonora di un film in
cui un computer si innamora di una ragazza. Mio nonno si chiamava Alberto. Ho
vissuto con lui dai dieci ai venticinque anni. Era un artista, suonava la
batteria, cantava, aveva un programmino di musica dance su Radio Messina.
Faceva il dj ai matrimoni e mi portava con lui. Anche dopo l’incidente. “Lo
faccio solo per te”, mi diceva. Ho imparato da lui come l’amore possa
trasformare il pianto in riso, il lancinante ricordo in una canzone.
Rimanere orfani a nove anni è una
gran brutta storia. Soprattutto quando ti sei salvato solo tu, con un graffio
sul polpaccio destro, e non sai perché, per come, se qualche dio ti abbia
salvato, oppure il diavolo.
Nell’incidente morirono nonna, mamma e papà. Stavamo andando a scegliere i vestiti per la mia Prima Comunione. Mia madre era convinta che a Catania ci fosse più scelta. Alla Comunione c’eravamo solo io e mio nonno.
Mio nonno mi ha dedicato la sua vita residua. Non l’ho mai visto piangere. Non
l’ho mai visto disperdersi nella tragedia. Forse perché sarei andato a fondo
anch’io. La mia zattera, mio nonno.
Vado a Roma, gli dissi. Seppe solo
darmi un bacio sulla fronte. È morto due anni dopo, cioè l’anno scorso. Sono
totalmente solo, oggi. Vorrei aggrapparmi a qualsiasi persona che mi dimostri
un po’ di attenzione, di cura, e mi faccia sorridere. Ma non posso soffrire per
una persona viva che mi abbandona. È un’assurdità. Non ho bisogno di vivi che
scappano! Piango spesso. Come adesso. Non devo.
L’ultima fetta della torta di Egle
l’ho surgelata. La mangerò in un momento difficile, perché la torta di Egle ha
il potere di farmi diventare allegro, cioè, aveva il potere di
rendermi allegro: caramellata, brunita in superficie, rimaneva un po'
croccante, ma l'interno era morbido, umidiccio, si sentivano le uova e anche un
liquore che sapeva di anice: sambuca, forse.
Egle, che abitava al quinto piano,
ed è una delle due persone fuggite dalla mia vita di recente, non mi ha mai
parlato del suo passato. Nel quartiere si vociferava che fosse vedova o col
marito in galera. Posso immaginarmelo, il suo passato. Sono convinto che abbia
fatto delle scelte azzardate, che ci sia stato qualche trauma grosso nella sua
vita. Chi vive dei traumi è sempre in fuga. Incredibile il modo in cui mi ha
lasciato. Solo una torta ricoperta di cellophane e una busta con un messaggio:
“Non chiedere niente. Non indagare. Ti voglio bene. Sono certa che il tuo nuovo
condomino ti farà tanto ridere”. Penso che le persone sfortunate (mio nonno
s’incazzerebbe per questo aggettivo) si attraggano, e il loro buono, quello che
è rimasto di buono, di vitale, si compenetri nella relazione. Le persone
sfortunate sono le più allegre, quelle che non ti fanno problemi, non sono
esigenti, accettano tutto. Ridono molto, nascondono molto. Non vogliono che
trapeli la loro sfortuna, che è come una tara, un difetto fisico di cui
vergognarsi.
Egle aveva un modo di parlare
strano: la erre moscia, un po' toscano, un po' romanesco. Mi aveva detto, in un
momento di confidenza, che era di Marina di Massa, che aveva vissuto a Milano
ma la malìa di Roma l'aveva catturata, posseduta.
Regalava le sue torte di riso a quelli del palazzo che le piacevano di più.
Le preparava ogni martedì sera. Era
un rito: mi consegnava un piatto di plastica con due fette di torta. Una per me
e una per il mio coinquilino. Quando le ho raccontato la mia storia, mi ha
accarezzato la mano, poi, con la dolcezza delle nonne, mi ha invitato a non
nascondere la tristezza ma a riempirla di bellezza, come un vaso di vetro con
dentro tanti fiori colorati.
Il condominio è uno degli stabili
degli anni Cinquanta di Torpignattara. Secondo gli analisti sociodemografici,
Torpignattara è un universo multirazziale pronto a implodere, a morire
soffocato, anche perché il quartiere già è esploso, coi suoi morti ammazzati a
cadenza regolare; per me è un posto di una ricchezza straordinaria, colmo di
odori sovrapposti e intriganti, di facce tutte diverse, di storie spezzate, di
continui, nuovi inizi, di confidenze, di leggende.
Ho condiviso per due anni
l’appartamento con Aziz, un assistente di volo turco. Non l’ho mai visto in
divisa. Talvolta ospitava delle persone che arrivavano tardi la sera, dormivano
da lui e sgattaiolavano la mattina all’alba. La mia stanza era al capo opposto
della sua e ci separava uno di quei lunghissimi corridoi delle case di una
volta. Non mi ha fatto entrare mai nella sua stanza. Vi accendeva incensi che
sfuggivano da sotto la fessura della porta. Mangiava quasi sempre fuori. Quando
non lo faceva, comprava roba già pronta, spesso, il kebab di Hassan. Le mie
conversazioni con Aziz vertevano sulla politica internazionale e il miele. Era
un appassionato di miele. Mi diceva che la sua famiglia raccoglieva un miele
particolare, prodotto in un altopiano che ospita cinquecento fiori, e che
curava tutte le malattie, anche le ferite. Me ne regalò un barattolo. Il sapore
era molto forte, quasi sgradevole. Lo regalai a Egle.
Una sera, Aziz è tornato a casa tardissimo. Gemeva di dolore. Il tempo di
aprire la porta di casa e aveva perso i sensi.
Quella sera, stavo correggendo le
bozze di un banalissimo romance di un’amica. Di solito rifiuto incarichi così
penosi, ma ho bisogno di soldi e di farmi un nome, perché il part time alla
Feltrinelli di Termini non mi basta più. Roma ti accoglie come una zia dolce e
rassicurante, poi ti presenta il conto. E io ho voglia di cinema, teatro,
libri, e devo pur mangiare.
Aziz aveva i jeans sporchi di
sangue. Non sapevo cosa fare. Forse chiamare un’ambulanza. Tentai due volte, ma
era occupato. Allora, ho chiamato Egle.
È scesa in ciabatte e camicia da notte, in una mano il miele dell'altopiano
turco.
Nel frattempo, Aziz aveva riaperto gli occhi. “Non chiamate l’ambulanza. Sto
bene, sono solo spaventato” ci diceva. Egle mi ha ordinato di prendere Aziz di
forza e di portarlo nel suo letto. La sua stanza era un posto assurdo. Un
tappeto persiano, un letto a baldacchino, una statua in bronzo di Apollo.
Aziz singhiozzava, Egle mi ha
chiesto di lasciarla da sola con lui e di portarle dei fazzoletti e un catino
con dell’acqua fredda. Dopo averle consegnato catino e fazzoletti, sono rimasto
a origliare da dietro la porta. I due sembrava pregassero. Lui di tanto in
tanto prorompeva in un gemito che sembrava un canto.
A un certo punto, Egle è uscita
dalla stanza dicendomi che andava a prendere a casa sua delle bende e del
disinfettante, raccomandandomi di non entrare nella stanza.
L'operazione è durata più di un’ora. Aziz si è ripreso. Ma è voluto andar via
da Torpignattara. Senza salutarmi. Non ho chiesto a Egle ciò che fosse accaduto
ad Aziz quella notte. Lo immagino, certo. Ho capito che lei era stata
un’infermiera o forse un medico. Ma anche questa cosa non è stata approfondita,
né da me, né da lei. Del resto, non c’è stato tempo. La settimana dopo, sparita
anche lei. Puff.
Aziz è stato rimpiazzato da Cosimo,
un militare calabrese che mi invita spesso in camera sua, quella che era stata
la mia, in realtà, perché mi sono trasferito in quella di Aziz, più grande e
debitamente ripulita di tutte le suppellettili esotiche. Il letto a baldacchino
è rimasto, come anche un libro su uno scaffale: il dottor Zivago. Tra le pagine
del libro ho trovato il foglio con lo scritto che sta traducendo Hassam.
La scrittura è di Aziz, identica a
quella della lista dei detersivi da comprare e che lui redigeva mensilmente.
Una scrittura delicata, leggera e tremolante, simile a degli uccelli in volo o
appollaiati su un filo spinato.
Con Cosimo siamo andati a mangiare
cinese l’altro ieri. È un ragazzo felice. Non ha un pensiero fuori posto. Ride
per qualsiasi cazzata. È bello, ma non ne è consapevole. È alto e bruno. Veste
malissimo. Pare uscito da un Postalmarket del ’91. Ha occhi blu che copre con
un paio di occhiali tartarugati orribili. Scambia interminabili messaggini con
la fidanzata storica rimasta a Crotone. La adora. E sembra adorare anche me. Mi
abbraccia con una stretta libera da qualsiasi remora. Come se per lui abbracciare
fosse un’abitudine. La sua pelle sa di
sapone di Marsiglia. Non è un mio amico, né credo potrà esserlo. È brutto da
dire, ma è così. Non potrebbe comprendere ciò che sono, il mio disagio, la mia
angoscia. Può una persona felice comprendere una persona triste? Ha fatto le
scuole professionali. L’obiettivo della sua famiglia era quello di fargli
vincere un concorso nell’Esercito. Si sposerà, farà dei figli bellissimi come
lui, tornerà al sud. Io resterò qui, in cerca di un mio simile con cui parlare.
Ho chiesto a Cosimo: “Ma tu mi
capisci?”. Lui mi ha dato una manata sulla nuca. Mi ha risposto che non ci
vuole la laurea per capire un’altra persona se si vuol capirla. Una risposta
che non mi ha soddisfatto, ma che, se proferita da un uomo di cultura, sarebbe
considerata profonda, una verità trascendente e universale.
Stasera, Cosimo è in monto notte.
Mi manchi nonno, mi manchi Aziz, mi
manchi Egle, mi mancate, mamma e papà, avrei voluto conoscervi meglio. Mi
manchi, Cosimo. Domani te lo dirò che mi sei mancato. Piango. Non devo
piangere.
La mia vita è buio, una continua
notte. Esco a fare due passi, m’inoltro fino al Parco Sangalli. La luna è
maestosa. L’aria fresca profuma di mimose. Una donna sta facendo fare i bisogni
a un cane in un’area recintata e smanetta su un telefonino che le illumina il
viso. Ha tratti balcanici, sta facendo una videochiamata, si asciuga gli occhi.
Due tossici si stanno bucando silenziosi sotto un arco dell’acquedotto. Passa
una volante della Polizia, rallenta, i poliziotti mi guardano, faccio un cenno
di saluto, vanno via. C’è odore di carne alla griglia, un suono lontano di
musica sudamericana. Mi siedo su una panchina. Dovrei trovarmi un lavoro serio.
Un full time, quantomeno. Stare tra i libri mi piace, ma metà del fatturato del
mio punto vendita è fatto di gadget e roba di cartoleria; è raro parlare di
libri con i clienti, mi sento una parte di un meccanismo. Domani presenterò la
domanda a un concorso per bibliotecario al comune di Rovigo. So che ci sono le
zanzare anche d’inverno, a Rovigo. Per il resto, per me un posto vale l’altro,
sebbene qui a Roma mi sembri di stare in tutti i posti dell’universo
contemporaneamente. E c’è un cielo azzurro che, chissà, forse a Rovigo me lo
sognerò. Guardo l’orologio. Oggi ho fatto diciottomila trecento sei passi.
Eppure, sento di essere stato fermo, inchiodato. Egle mi ha pagato un anno di
affitto. Mi vuole anche lei, qui. Devo stare un altro anno. Il destino non è un
qualcosa che si crea, non è un’agenda da scarabocchiare. È un’opera a più mani.
Sfugge al proprio controllo. A volte fa comodo, questa mancanza di
intenzionalità. Deresponsabilizza. Rovigo e Roma si contenderanno i miei
prossimi mesi. Che strano: Ro, Ro.
“È proprio un poeta il tuo amico”.
Hassam mi porge il foglio e chiude la saracinesca del chiosco. Con lui c’è una
ragazza coi capelli lunghi, lisci e neri. Mai vista. Mi scruta, fa finta di
guardare altrove, aiuta Hassam a impilare delle sedie metalliche e a legarle
con una catena.
“Non è mia moglie” esclama Hassam.
E ride. La ragazza gli dice di smetterla. Ha una voce vellutata. Gli dice
“smettila, scemo” in italiano.
“Sono la sua sfortunata sorella,
succube finché Allah vorrà” si rivolge a me. Ha un modo teatrale, impostato di
parlare.
“Fai teatro?” le chiedo.
“Anche”. risponde.
Hassam mi porge il foglio, mi dice
che ha scritto a matita la traduzione.
“È un poeta il tuo amico, ma ho
dovuto chiedere aiuto a mia sorella, l’esperta di dolci è lei”.
Non capisco.
La ragazza mi si avvicina. Mi porge
la mano. “Sono Rojin, Romeo Oscar Juliet India November”. La sua stretta è
forte, calda. Le dico il mio nome senza spelling.
“Perdonala, fa la volontaria alla Protezione Civile" fa Hassam e aggiunge
"oltre a perdere tempo a Siena. Roma è piena di facoltà, poteva darmi una
mano qui”.
“Marco, senti… sto qui un paio di giorni, ospite di questo individuo qua” Rojin
mi guarda fisso negli occhi “domani al parco dell’Acquedotto inizia una
rassegna cinematografica interculturale, c’è un film iraniano interessante,
girato dal figlio di Jafar Panahi, lo conosci?”.
“Il padre o il figlio?”. Non so che
dire.
Aziz e Rojin si guardano e ridono.
“Mia sorella è un’esperta di cinema
noiosissimo. Attento.”
Rojin mi chiede di vederci
l'indomani per il film, le dico che va bene. Ha occhi neri, sconfinati.
Apro il foglio di Aziz mentre salgo le scale. Sono al quinto piano, tiro il
fiato.
Ricetta della torta di riso più buona del mondo...
…
Non era sambuca, bensì ouzo.
Scongelo al microonde la fetta di
torta di Egle.
Rinuncio a capire una serie di cose
incomprensibili.
Che bello che è decidere di non
capire.
Il riso dolce si scioglie in bocca.
Cerco su internet il significato del nome Rojin.
Significa “colei che appartiene al giorno”.
Ecco. Ci sono amici che non ti stanno a sentire anche se gli dici le stesse cose dello psicologo, e forse meglio, perché non ti pagano.
RispondiEliminaEppoi gli occhi sconfinati. Sei un poeta pure tu. Ma lo sai.
Grazie caro
EliminaScritto benissimo, come sempre.
RispondiEliminaBuon Natale, Bruno!!!
grazie Annamaria, un abbraccio e buon Natale anche a te
Eliminaquesto non è un racconto come quelli che di solito si leggono sui blog, le duemila battute focalizzate su un episodio, a non stancare il lettore. Questo è un breve romanzo di vita, una vita provvisoria, sperdente, fatta di lutti e di vorrei, tremendamente reale, inconcludente eppure concreta, illuminata da piccoli sprazzi di speranza, andare a Rovigo, uscire con Rojin, che sicuramente si spegneranno prima di realizzarsi.
RispondiEliminascrittura matura, capace di tracciare personaggi credibili che orbitano attorno alla sensazione di vuoto interiore del protagonista.
molto apprezzato
massimolegnani
(orearovescio.wp)
Ti ringrazio tanto tanto tanto. È stato molto faticoso scrivere questo racconto. Alla prossima!
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