Negli ultimi anni ho incassato una serie di sconfitte. In un certo senso, ho capito, me le sono cercate. Le ho pilotate, accelerate. Mi sono boicottato perché vincere comporta una serie di responsabilità.
Se perdi sempre, non ci si aspetta niente da te.
Un po' per caso, nei mesi scorsi, mi sono arrivate un paio di proposte di lavoro interessanti.
Niente è per caso, si dice. No, no. Credetemi, queste occasioni sono arrivate per caso.
Sono stato travolto dall'ansia di far bene, di non deludere, di dimostrare di essere bravo, competente.
Vent'anni fa avrei approcciato questi impegni con eccitazione, sfida, divertimento. Ora no, perché ho cinquant'anni, non posso fallire come un ragazzo alle prime armi.
Avevo voglia di mandare tutto all'aria. Ma ho portato a termine gli incarichi.
Non so se bene o male.
Non ho chiesto riscontri. Né me ne hanno dati. E a me sta bene così.
Ieri, è stata una di quelle giornate fallimentari.
Non ho paura della parola "fallimento". Mai avuta.
Ieri sera sono stato annichilito dal fallimento. Dal mio fallimento.
Ho cercato di inventarmi delle scuse, degli alibi. Niente: un'ammissione di lancinante fallimento.
Torneo di tennis: NOVE A ZERO.
A un certo punto, in campo, ho smesso di ragionare. Era inutile. Buttavo la palla di là sperando che l'altro sbagliasse. Invece, lui, pizzicava anche le righe.
A un certo punto mi fa: "Stai male?".
Rispondo no, ma la motivazione a combattere, è scomparsa del tutto.
Una serata storta? No. Fallimentare.
Non ho voluto fare nemmeno la doccia. Sono scappato.
Oggi sono dolorante, eppure mi sembra anche di non aver corso. Ancora non ho capito dove ho sbagliato.
Forse non c'è niente da capire. Quando uno è più forte di te, non c'è storia, non c'è partita.
E, forse, non è nemmeno un fallimento. Ma una presa d'atto.